HOW IT ALL STARTED
Mar 03, 2023
Era il luglio 1991, io mi trovavo con i miei nonni americani, i genitori della prima famiglia che mi ha ospitato in America. Ero lì da un paio di mesi quando abbiamo deciso di fare questa gita a Disneyland. Siamo partiti in macchina da Carson City a Nord del Nevada mettendoci circa sei ore. Mi ricordo chiaramente questo episodio: eravamo lì nel parco e c’era la mia nonna americana sulla sedia a rotelle. Io indossavo questo cappellino di una squadra che nemmeno ricordo, era bianco e marroncino e lo tenevo girato all’indietro come mi capitava spessissimo di fare in Italia. Lei a un certo punto mi ha urlato “Fabio, turn your hat around!”, messaggio che da neofita americano non sono riuscito subito a capire. Confuso, mentre lei veniva verso di me ho riportato la visiera sulla mia fronte appena in tempo per accorgermi di questo gruppo di sette o otto ragazzi ispanici, più o meno della mia età, tutti vestiti con canottiera bianca, catena e pantalone baggy. Lì la nonna e suo marito mi hanno spiegato in modo approssimativo che quel gruppo faceva parte di una gang. Nel periodo di preparazione fatto a New York ci avevano parlato dei problemi di gang affiliation, spaccio di droga e controllo dei territori da parte di blood e crips, ma non avevo mai visto da vicino questa realtà che fino ad allora mi era sembrata distante.
A distanza di qualche mese è venuto nella Douglas High School lo sceriffo di contea per mostrarci un video che illustrava tutta una sequenza di gang, hand signs, elementi di affiliazione: all’epoca quando due gang rivali si incontravano la prima cosa che facevano per capire l’appartenenza a un gruppo piuttosto che un altro facevano questa cosa di “throwing up hand signs”, che tendenzialmente scatenava rissa o omicidi.
La presenza dello sceriffo era legata alla fuga degli affiliati da Los Angeles verso le contee limitrofe e a un timore da parte delle autorità che questi personaggi arrivassero anche lì.
Ma nella mia scuola c’erano solo un ispanico e un nero, per il resto eravamo tutti caucasici, quindi queste cose non appartenevano alla bolla in cui eravamo abituati a vivere e le varie raccomandazioni in quel momento scatenavano solo ilarità. Nonostante per noi in quel momento fosse fantascienza, da lì a un paio di anni quei timori si sono rivelati fondati e alla Douglas High School insieme a chi fuggiva da Los Angeles sono arrivati i metal detector. Al principio di tutti i problemi era stata la famigerata rivolta di Los Angeles, nata in seguito al pestaggio da parte di agenti della polizia - poi assolti - nei confronti di Rodney King.
Tutto questo ovviamente si era tradotto anche in un rigido dress code imposto dal liceo per evitare che girassimo con i colori sbagliati: no rosso (rappresentativo dei Bloods), no blu (dei Crips), no teschi..e la lista continuava.
Nel corso dei mesi facendo parte di una crew di skater ho iniziato a toccare con mano una sorta di peer pressure sotto il profilo estetico per cui se ti mettevi i pantaloni troppo stretti con un orlo diverso, piuttosto che la visiera del cappello curva anzichè dritta, i capelli bleached in un determinato modo e altri infiniti dettagli, rientravi in determinate sottoculture. Il dress code eliminando determinati elementi e imponendo forzosamente una scelta nei capi da indossare aveva delineato una determinata ricerca estetica.
Questa consapevolezza nella scelta di cosa indossare e come indossarlo l’ho acquisita per la prima volta lì, nella primavera del ‘92; prima di allora - soprattutto in Italia - non era mai stata una cosa così definita per me.